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Villaggio della Pace – Una preghiera dietro le sbarre

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Metto a disposizione del blog questa testimonianza scritta su richiesta di don Damiano Amato, e che mi sembra particolarmente adatta per un giorno come oggi. Ecco cosa mi scriveva il 4 dicembre 2020 questo sacerdote. “Gentilissimo Don Mauro. Mi piacciono i suoi interventi sulla Chiesa e sul modo di esserlo. Ho bisogno della sua collaborazione e sono sicuro che me la darà. Mi accingo a preparare il prossimo numero del periodico “Villaggio della Pace“, che ogni anno spedisco ai benefattori che mi hanno aiutato a realizzare la casa di spiritualità Il villaggio della pace. Negli anni passati i temi dell’opuscolo sono stati: frasi del Vangelo, versetti dei Salmi, preghiere, aneddoti ecc. Per il prossimo anno 2021, vorrei che il tema dell’opuscolo riguardasse una figura, un episodio o un’esperienza che abbia lasciato un segno nella sua vita o che abbia influito in modo forte, determinante nella sua formazione. Il nostro cuore è uno scrigno di ricordi, di sentimenti e di emozioni e custodisce volti, parole, eventi che affiorano alla nostra memoria e ci commuovono ancora. Ho pensato a lei e ad altri “amici” verso cui nutro, stima, ammirazione. La prego, pertanto, di raccontare qualche esperienza che l’ha particolarmente toccata per condividerla con gli altri. Fiducioso nella sua sensibilità e disponibilità, le sono grato per la sua preziosa collaborazione e attendo il suo sì. Sono consapevole di averle chiesto molto e mi scuso; d’altra parte tutti possiamo fare qualcosa per far crescere il bene e farlo insieme è bello.” L’immagine del post è la copertina dell’opuscolo che contiene le testimonianze raccolte da don Amato.

“Venivi a trovarmi in quel posto brutto. Io ti dicevo che non avevo paura. Che prima o poi uscivo. Quando venivi io parlavo con te, facevamo la nostra preghiera e poi andavi via. Ma io stavo bene tutta la settimana”.
D’improvviso Facebook fa galleggiare sullo schermo del mio pc le parole di un ex-detenuto di Rebibbia. Anche se il post è pubblico preferisco per evidenti motivi non riportare il nome dell’autore, visto che oltretutto il carcerato si trovava nel reparto che custodisce coloro che hanno commesso reati ascrivibili alla pedofilia e al femminicidio.
Le parole di Marco, qui lo chiamerò con questo nome, mi riportano a un momento tra i più felici del mio sacerdozio, a ciò che mi commuove più profondamente. Il cappellano di un carcere (io ero lì in veste di volontario ex art 17) per forza di cose è molto coinvolto nell’azione caritativa, cioè in quella solidarietà con i poveri e gli ultimi che Gesù ci chiede in Mt 25. Marco però, come racconta lui stesso, voleva solo che “pregassi con lui”. La carità spesso si esprime anche solo con la vicinanza, quindi con il parlare, con il farsi raccontare, ma lui voleva che quello stare insieme fosse fatto di preghiera. Dicevamo l’Ave Maria stringendoci le mani. E io mi commuovo ancora perché trovo nel ricordo quelle parole di Cristo per cui quando si prega assieme si è in due. Lui è presente. E quel detenuto, pur trovandosi in una situazione difficile come quella del carcere, sentiva quella presenza e di quella presenza si nutriva per l’intera settimana.
Il senso della vocazione sacerdotale è essere Gesù con i piccoli, con gli emarginati, con gli esclusi . Provare a essere, come Giovanni Battista, quella voce che urla nel deserto. Un deserto che in quel caso aveva la forma di un carcere. Gesù non dice nel Vangelo “ero in carcere da innocente e siete venuti a visitarmi” ma parla semplicemente dell’essere in carcere: e in carcere certo ci sono persone innocenti, ma ci sono anche persone colpevoli, eppure Cristo è misteriosamente anche con loro e in loro.
Il sacerdote entra in carcere in punta di piedi, traversa vite sofferenti che, molto spesso, lo sono perché hanno fatto soffrire. Quei dialoghi si svolgevano di giovedì e io il giovedì sentivo che quel momento di colloquio era un momento di preghiera atto a ricostruire un minimo di relazione, un minimo di possibilità di non perdere la speranza. Mi commuovono, di queste parole che grazie agli algoritmi dei social sono tornate ad emergere nella mia vita, alcuni piccoli elementi. Quando le ricordo mi dico: “parlavamo insieme”, “c’era la nostra preghiera”. E mi accorgo che mi tornano alla mente i viandanti di Emmaus e il fatto che in quei momenti veramente si percepiva la Presenza di Dio in un percorso comune di ricerca e di riscoperta della Fede, della Speranza, della Carità. Sarò retorico, ma tra le sbarre, apprezzavo in modo profondo le libertà di cui godiamo da liberi e il fatto che, anche nelle peggiori vicissitudini, è possibile trovare il modo di non essere soli. Eppure, entrando in carcere, apprezzi il fatto che ti vengono tolte tutte le etichette: che il tuo essere prete è spogliato di tutte le sovrastrutture perché solo la tua anima nuda può incontrare l’anima nuda di chi ti viene a cercare.
Quel dialogo insieme, quella preghiera insieme, non sono mai stati solo il momento per “stare bene” da parte dei carcerari che visitavo, ma un momento che ha riempito di senso e riempie di senso anche la mia di vita, il mio sacerdozio. Al punto di essere convinto che, alla fine, l’opera di misericordia sia stata fatta prima di tutto a me. Perché la carità è in primo luogo la scoperta di una relazione, di un cammino di vita che avvicina le persone più diverse. Si sente tutta la verità di quando Cristo dice che “prostitue e ladroni precederanno” tanti in Paradiso. Si è portati a ripetete, come il ladrone “ricordati di me” e a essere un po’ tutti Simone di Cirene che guarda con compassione le croci che passano. E vien voglia di aiutarsi a portare gli uni le croci degli altri.

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